Dopo aver sinteticamente delineato la distinzione tra fattispecie commissive ed omissive, la seguente riflessione individua i casi in cui tale distinzione presenta, in concreto, profili di maggiore criticità, onde soffermarsi sulle modalità di accertamento del rapporto causale nei reati omissivi impropri, con particolare riferimento al delitto di cui all’art. 437 c.p.
La problematica posta all’attenzione impone di riflettere, in via preliminare, sulla distinzione tra fattispecie commissive ed omissive, richiedendo particolare concentrazione sulla figura dei reati omissivi impropri, di cui occorre analizzare gli aspetti di maggiore criticità, specie in punto di accertamento del nesso causale. Una volta chiare tali coordinate ermeneutiche, esse troveranno applicazione nell’analisi strutturale della fattispecie di cui all’art. 437 c.p., la quale rappresenta punto di emersione di una molteplicità di questioni in punto di indagine sullo stato dell’arte in materia di diritto penale del lavoro.
Orbene, il punto di partenza da cui prende abbrivio la presente disamina è il fatto tipico, ossia il nucleo essenziale di cui si compone ogni fattispecie di reato, frutto della relazione tra condotta ed evento.
A livello generale può affermarsi che la condotta sia elemento indefettibile del fatto di reato, in quanto possono darsi reati senza evento, ma non possono esservi reati senza condotta, sicché la distinzione tra fattispecie penali commissive ed omissive ruota intorno al concetto di condotta, attesa la rilevanza che essa assume nella costruzione di quel fatto umano che chiamiamo reato.
Le fattispecie commissive sono espressione di condotte attive, cioè a dire che la struttura della norma incriminatrice si sviluppa in relazione ad una condotta materialmente percepibile che, da un punto di vista empirico, è il risultato della sommatoria di movimenti fisici il cui esito è la enucleazione del fatto descritto tassativamente nella norma penale di riferimento.
A tali fattispecie si contrappongono quelle a carattere omissivo, ove la condotta del soggetto agente non si sostanzia in una azione, bensì in un non agere. Lo studio del fenomeno omissivo risulta particolarmente complesso, in ragione del fatto che anche l’omissione, per quanto rappresenti un non agere, si sostanzia in un comportamento al pari dell’azione.
Ciò crea certamente problemi in punto di analisi dei fatti di reato avvinti dalla dinamica omissiva, in quanto, aderendo ad una dinamica naturalistica della omissione, essa viene letta alla stregua di una mera inerzia, sebbene ciò non sia in grado di valorizzare la reale distanza che sussiste tra tali fattispecie e quelle commissive.
Le riflessioni condotte dalla dottrina e dalla giurisprudenza sul reato omissivo per antonomasia[1], ossia l’omissione di soccorso (art. 593 c.p.), hanno consentito di evidenziare la natura normativa dell’omissione, la quale è sì un’inerzia, ma allo stesso tempo collegata ad uno specifico obbligo di azione.
La norma incriminatrice impone al singolo soggetto di agire, ma egli nel caso concreto disattende il comando imperativo, enucleando in tal modo una condotta penalmente rilevante in punto di omissione.
Chiunque ometta di dare immediato avviso all’Autorità, a fronte del ritrovamento, ad esempio, di un corpo umano che sia o sembri inanimato, commette un’omissione di soccorso, in quanto non adempie all’obbligo di immediata allerta, ledendo, al contempo, il bene giuridico dell’incolumità individuale e della vita del soggetto ritrovato, il cui corpo sembra inanimato.
Alla base della struttura del fenomeno omissivo vi è il dovere di solidarietà sociale che l’art. 2 Cost impone ad ogni cittadino di adempiere, sicché sottraendosi all’obbligo di azione il singolo lede il bene giuridico tutelato dall’ordinamento che istanze solidaristiche richiedono di salvaguardare.
L’analisi delle fattispecie omissive richiede all’interprete uno sforzo ulteriore, in relazione all’analisi della condotta omissiva, che naturalisticamente è un nulla, ma che a livello giuridico assume un peso rilevante in termini di attribuzione della responsabilità penale.
Il fenomeno omissivo si bipartisce al suo interno, in ragione della costruzione del fatto di reato incastonato nella norma incriminatrice. Dalla lettura dell’art. 593 c.p. si evince la sussistenza di un fatto che fa perno intorno ad una condotta descritta in forma omissiva direttamente dal legislatore, in ciò enucleandosi la figura dell’omissione propria.
In buona sostanza l’omissione si dice propria quando il fatto di reato è, a monte, costruito in termini omissivi dal Legislatore.
Vi è chi sottolinea come, in date circostanze, ad essere descritta non sia solo la condotta omessa, ma anche l’evento che tale condotta è chiamata ad evitare, come accade nella delineazione del fatto contravvenzionale descritto nell’art. 659 c.p., ove l’omissione propria (impedimento dello strepitio di animali), ingenera un evento lesivo (disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone).
Orbene, non sempre è possibile riscontrare una puntigliosa descrizione in chiave omissiva del fatto di reato, sicché esso si colora di tonalità omissive attraverso una operazione di conversione del fatto declinato in forma attiva, in un fatto di reato avente natura omissiva.
Tale conversione si attua attraverso l’utilizzo della clausola di equivalenza contenuta nell’art. 40, comma 2, c.p., la cui interpretazione è utile a comprendere il fenomeno della commissione mediante omissione, ossia il raggio di azione dei reati omissivi impropri.
Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo; cioè a dire che il non impedire equivale a cagionare, a fronte della presenza di un obbligo giuridico che istituisca una posizione di garanzia, al fine di proteggere il bene giuridico rilevante.
Attraverso il fenomeno del concorso di norme, l’art. 40, comma 2 c.p. consente di trasformare fattispecie di reato in forma attiva in fattispecie omissive, alla luce dell’equivalenza giuridica che discende dal considerare alla stessa stregua il non impedire al cagionare.
Non sempre la conversione risulta possibile, sicché le fattispecie omissive improprie richiedono una riflessione in punto di compatibilità della fattispecie commissiva con la clausola di equivalenza di cui all’art. 40 cpv.
Ben può affermarsi che non sussista compatibilità tra art. 40 cpv ed i reati di mera condotta, giacché in tali fattispecie di reato il fatto tipico non è rivolto alla descrizione di una fattispecie che esita in un evento che l’ordinamento intende impedire.
Discende da ciò che la combinazione tra l’art. 40 cpv e la norma di parte speciale si rende possibile in relazione a fattispecie pure di evento, come l’omicidio, sia esso doloso (art. 575 c.p.) sia esso colposo (art. 589 c.p.).
Si è ritenuto di poter sussumere sotto l’egida dell’art. 40, comma 2 c.p. anche fatti di reato in cui il fatto tipico è descritto in termini particolareggiati e fortemente orientati alla esaltazione della condotta, come accaduto in relazione al reato previsto e punti all’art. 640 c.p. (truffa), ove è forte il riferimento agli artifizi ed ai raggiri che strutturano l’azione del soggetto agente.
Nonostante la rilevanza di tali connotazioni si è ritenuto di qualificare il delitto in questione come reato di evento, in quanto finalizzato alla ingiusta locupletazione del soggetto agente, quale risultato della induzione in errore del truffato.
Tale circostanza ha indotto dottrina e giurisprudenza a configurare l’illecito in esame anche sotto la prospettiva dell’omissione impropria, specie in sede di truffa contrattuale.
Il silenzio serbato fraudolentemente dal truffatore nei confronti della vittima, circa elementi rilevanti ai fini della contrattazione, non è solo indice della lesione del canone di buona fede (art. 1375; 1337 c.c.) ma anche espressione di una condotta omissiva, la quale risulta evidente all’atto di fondere l’art. 40 cpv con l’art. 640 c.p.[2]
Lo studio dell’omissione impropria pone in luce il ruolo centrale della posizione di garanzia, ossia della funzione a cui è chiamato colui a cui un obbligo giuridico assegna il compito di attivazione al fine di evitare la causazione di un evento lesivo.
Orbene, l’obbligo di impedire un evento, in ossequio al principio di legalità (art. 25, comma 2 Cost), non può non trovare fonte nella legge, quale strumento in grado di delineare i limiti esterni che disciplinano lo spazio di azione del garante.
In relazione alla fonte dell’obbligo di garanzia si discute molto in dottrina, ove spesso si tende alla valorizzazione dell’autonomia privata, alla luce dell’art. 1372, comma 1 c.c., secondo cui il contratto ha forza di legge tra le parti.
In buona sostanza, onde evitare la violazione del principio di legalità, si ritiene che la fonte contrattuale possa essere strumento attraverso cui, indirettamente, la posizione di garanzia entra nel traffico giuridico, sebbene, a monte, sia oggetto di enucleazione legislativa.
Si pensi al classico esempio del minore, soggetto alla cui cura sono tenuti i genitori (artt. 315 bis; 316; 147 c.c.), quando viene affidato ad una bambinaia.
Sul punto occorre precisare che la posizione di garanzia, qualora sia oggetto di delega, in ragione di una contrattazione, deve essere messa nella condizione di poter operare correttamente, al fine di impedire l’evento.
Qualora i genitori garanti, senza attendere l’arrivo della bambinaia presso il loro domicilio, si determinino a lasciare solo il figlio minore, dell’evento lesivo subito (es: autolesioni) non potrà essere chiamato a rispondere il garante delegato (bambinaia), giacché ad impossibilia nemo tenetur.
Il fenomeno della omissione impropria pone problemi in punto di interpretazione, in quanto la sua struttura, connessa alla violazione di un obbligo imperativo inscritto in un canone extrapenale (da cui trae fonte la posizione di garanzia), spesso crea una sovrapposizione tra ragionamento circa l’omissione e ragionamento circa una condotta commissiva di matrice colposa.
La macro distinzione commissione/omissione entra in crisi proprio alla lice della omissione impropria, in ragione della sua vicinanza al ragionamento che l’interprete deve porre in essere in punto di responsabilità colposa avente ad oggetto la commissione di un fatto di reato tramite la violazione di norme cautelari. La fenomenologia della responsabilità medico-chirurgica esprime questa criticità, ove la colpa commissiva spesso si confonde con la colpa omissiva, sicché il ragionamento sull’omissione impropria spesso rischia di confondersi, in punto di ricostruzione del nesso eziologico, con il problema della prova della colpa.
La riflessione empirica dimostra come determinate condotte, alla luce dell’ars medica, risultino essere un coacervo di fattispecie miste attive con omissive la cui matassa, molto spesso, è complessa da sbrogliare.
Ciò in quanto un errato trapianto di organo, per quanto sia materialmente riconducibile ad una azione colposa (posto che il dolo nella colpa medica è situazione residuale, tanto da essere confinata ad ipotesi di scuola), a monte vede il sanitario omettere di porre in essere una corretta diagnosi sull’organo innestato che, all’esito del trapianto, risulta affetta da una patologia tumorale.
I piani tendono a sovrapporsi perché non vi è nettezza tra confini delle condotte penalmente rilevanti e il problema della causalità omissiva, spesso diviene un problema di causalità della colpa in punto di commissione.
Ciò induce a riflettere sul vero problema dell’omissione impropria, ossia la modalità di accertamento del nesso causale.
Il rapporto di causalità è fuori dal fatto tipico, giacché esso non è elemento del fatto ma strumento di relazione che indica come conseguenza di un dato comportamento la verificazione di dato evento. Esso non è definito nella legislazione penale, in quanto gli artt. 40 e 41 c.p. istituiscono la causalità, ma nulla dicono circa le modalità tramite cui si giunge ad un suo corretto accertamento.
Oggi, la questione della causalità penale trova soluzione alla luce della teoria condizionalistica, secondo cui occorre verificare se la condotta del soggetto agente sia condicio sine qua non dell’evento.
L’interprete messo dinanzi alla fattispecie deve porre in essere una prognosi postuma, giacché il ragionamento causale è tipica espressione di un ragionamento abduttivo che a ritroso cerca di verificare le modalità con cui un dato effetto si è palesato nella realtà.
La prognosi è postuma, in quanto l’interprete, che interviene dopo il fatto, ragione in termini di idoneità ex ante della condotta alla causazione dell’evento.
Si tratta di un procedimento di eliminazione mentale della condotta posa in essere dal soggetto agente, onde verificare la venuta meno delle conseguenze dannose o pericolose.
Orbene, eliminata mentalmente la condotta attiva, qualora l’evento non si sarebbe verificato, allora ciò è indice del collegamento causale tra la prima e il secondo, in quanto l’azione è sua componente necessaria. Se il giudizio di eliminazione mentale della condotta consente di verificare che l’evento lesivo si sarebbe comunque verificato, allora la condotta non è condizione necessaria del medesimo.
Tale ragionamento, frutto di una visone del nesso causale improntata alla applicazione dei criteri della logica formale, viene condotto alla stregua di leggi scientifiche di copertura, idonee a limitare le estremizzazioni del condizionalismo.
La causalità scientifica[3], alla luce dei recenti approdi della giurisprudenza di legittimità, è in grado di addivenire alla ricostruzione del nesso eziologico con elevato grado di probabilità e credibilità razionale.
Tale ragionamento trova applicazione anche in punto di riflessione circa la causalità omissiva, ove la giurisprudenza ritiene necessaria l’applicazione di leggi scientifiche di copertura, onde pervenire ad una rilevanza eziologica dell’omissione.
Come per la causalità attiva, anche per la causalità omissiva lo standard probatorio dell’oltre ogni ragionevole dubbio (art. 533, comma 1 c.p.p.) deve essere perseguito attraverso la credibilità razionale del ragionamento nomologico-deduttivo dell’interprete in punto di causalità, con la particolarità che in sede di omissione (sia essa propria sia essa impropria), la ricostruzione del nesso causale è doppiamente ipotetica.
In buona sostanza, il ragionamento controfattuale vive di un doppio momento, ossia quello della sostituzione della omissione con l’azione e, successivamente, quello della verifica afferente l’idoneità della condotta doverosa alla preservazione del bene giuridico, tramite l’impedimento dell’evento.
La ricostruzione del nesso causale, in tema di omissione impropria, guarda alla sostituzione dell’inazione con l’azione imposta dall’obbligo giuridico incombente su colui che è posto in posizione di garanzia, onde verificare se, a parità di condizioni, il rispetto del ruolo di garante avrebbe evitato o meno la verificazione dell’evento.
Le argomentazioni che precedono sono utili per ricostruire il fenomeno descritto all’interno dell’art. 437 c.p. (rimozione od omissione di cautele contro infortuni sul lavoro). L’applicazione concreta del ragionamento in punto di causalità si sostanzia nella verifica postuma circa l’idoneità o meno dell’omessa predisposizione di un impianto anti-infortunio sul luogo di lavoro alla causazione dell’evento.
La questione è stata affrontata dalla giurisprudenza di legittimità in relazione ai fatti del rogo avvenuto presso lo stabilimento torinese della Thyssenkrupp, ove la Cassazione ha svolto riflessioni importanti in punto di ricostruzione causale dell’omissione di cui al 437 c.p.[4]
Al centro della questione è la gestione del rischio all’interno dei luoghi di lavoro, sicché occorre approcciarsi al diritto penale del lavoro prendendo atto della complessità dei contesti fattuali ove le singole fattispecie di reato trovano enucleazione[5].
Tutto quanto detto in punto di delineazione delle posizioni di garanzia trova massima espressione all’interno di contesti aziendali di grandi dimensioni, ove la responsabilità è difficilmente imputabile ai soggetti prossimi al fatto, bensì trova fondamento nelle scelte a monte poste in essere dalla direzione apicale dell’azienda che a questi ultimi ha delegato funzioni di garanzia.
Occorre avere presente la mappa della sicurezza aziendale, i cui punti di riferimento sono gli artt. 17, 28, 299 del D.Lgs. 81/2008, da cui discendono le posizioni di garanzia all’interno del contesto aziendale.
Al vertice il datore di lavoro, garante per eccellenza della integrità fisica e morale dei lavoratori (art. 2087 c.c.), il quale imprime, con le sue scelte, la conduzione dell’azienda.
Di seguito si individuano i singoli dirigenti preposti alla conduzione di determinate ramificazioni del complesso aziendale, con funzioni di responsabile del servizio di prevenzione e protezione rischi (la cui nomina è rimessa esclusivamente in mano al datore di lavoro).
In ultimo i singoli lavoratori preposti, che attuano le direttiva impartite, alla luce di una logica a cascata che dal vertice (datore di lavoro) giunge a valle (base imprenditoriale), passando per i quadri intermedi.
Questa tripartizione trova attuazione alla luce del concetto di delega di funzioni (art. 16 D.Lgs. 81/2008), ossia responsabilità multi-livello, ove il vertice delega, per ragioni di pratica gestione del complesso aziendale, verso il basso le funzione di prevenzione e gestione del rischio.
Le caratteristiche della delega consentono di affermare come non si sia in presenza di una cessione di funzioni, bensì di un trasferimento delle medesime da cui comunque residua un obbligo di visione dell’alto da parte del delegante nei confronti del soggetto delegato.
Orbene, alla luce di tale complessità, occorre applicare lo statuto della causalità ipotetica, onde verifica se l’omessa predisposizione dolosa di un impianto (ad esempio anti-incendio) abbia cagionato, nella specie, la morte dei lavoratori nello stabilimento aziendale, con ragionamento ispirato alla probabilità logica ed alla credibilità razionale (ovvero esclusione di ulteriori ipotesi alternative per la ricostruzione dell’evento).
L’analisi del fatto concreto deve fare emergere la rilevanza della omissione dolosa, giacché se il giudizio prognostico, ex post condotto dall’interprete, non è in grado di far emergere al di là del ragionevole dubbio la rilevanza eziologica dell’omissione (ovvero della commissione mediante omissione), il fatto di reato non è addebitabile al soggetto agente.
Avv. Pierandrea Fulgenzi
Per un approfondimento della tematica si vedano COORDINATE ERMENEUTICHE DI DIRITTO PENALE, a cura di Maurizio Santise – Fabio Zunica, G. Giappichelli Editore, Terza Edizione 2017, pp. 201-233 e pp. 658 – 674.
Note:
[1] La definizione si trova in I SISTEMI DEL DIRITTO – collana diretta da F. Caringella – M. Fratini – A. Salerno – IL SISTEMA DEL DIRITTO PENALE – a cura di A. Salerno, Vol. 2 – Dike Giuridica Editrice, 2016, p. 44.
[2] Sul punto si veda Cass. n.° 41717/2009 e Cass. n.° 51136/2013 in cui è riconosciuta la compatibilità tra le modalità della condotta tipizzate dal Legislatore nel reato di truffa e la causazione in forma omissiva dell’evento, individuando, nel caso di specie l’obbligo giuridico di impedirlo nel generale dovere di buona fede e correttezza, che richiedono l’adempimento di obblighi informativi dal parte del contraente.
[3] Sull’adozione del metodo della causalità scientifica si veda Cassazione penale, SS.UU, sentenza 11/09/2002 n° 30328 Franzese.
[4] In tema di sicurezza sul lavoro (e non solo, dato l’ampio spettro delle tematiche affrontate nel corpo motivazionale, tanto da interessare numerosi temi generali del diritto penale) si veda Cass. Sez. Un. n.° 38343/2014.
[5] Il tema delle organizzazioni complesse e più in generale della colpa da organizzazione trova molto spazio in giurisprudenza, sol che si consideri che la delicata problematica afferente la selezione dei garanti nell’ambito delle organizzazioni complesse (estremamente ramificate) è trattata in: Cass, Sez. IV, 8.05.2012, n.° 17074; Cass, Sez. IV, 23.11.2012, n.° 49821; Cass, Sez. IV, 28.05.2013, n.° 37738.