Chi non rispetta le regole? Italia e Germania, le doppie morali dell’euro. Recensione, analisi e commento del libro di Sergio Cesaratto, Imprimatur editore, 2018
SERGIO CESARATTO: Professore ordinario di Politica monetaria e fiscale dell’Unione Economica e Monetaria europea, Economia internazionale presso l’Università di Siena. Ha pubblicato sulle principali riviste eterodosse internazionali e si è occupato, fra l’altro, di crisi europea, moneta, crescita, pensioni e innovazione tecnologica.
Prefazione
L’Autore trae l’incipit della propria analisi dalla constatazione del fatto che le accuse che la Germania, ed altri Paesi del Nord Europa, sono soliti rivolgere ai membri dell’area mediterranea della UE tendano spesso ad assumere connotati etico-religiosi, richiamando una supposta contrapposizione tra il rigore “protestante” dei popoli nordici a quello che sarebbe l’accomodante lassismo “cattolico” dei popoli meridionali. Ma è realmente questa la radice dell’attuale crisi dell’Eurozona? Sono stati davvero i Paesi “mediterranei” a violare le regole della moneta unica, oppure i primi a farlo sono stati proprio i loro inflessibili detrattori “nordici”, nell’intento di dissimulare i propri interessi nazionali e le proprie ambizioni egemoniche dietro un arrogante moralismo?
Cesaratto muove quindi il discorso dal piano etico al piano dell’analisi economica, sottolineando come esistano evidenti analogie fra la storia dell’unione monetaria europea e quella del gold standard, ovvero del sistema monetario basato sulla parità aurea che governò l’economia mondiale dal 1870 al 1914, nell’era della “prima” globalizzazione. In entrambi i casi, argomenta l’Autore, ci si trova di fronte a indirizzi di economia politica concepiti per favorire i Paesi che godono di condizioni di surplus a spese di quelli in deficit. Le potenze dominanti, pur professando principi liberisti, non accettano che il mercato riequilibri i rapporti di forza facendo aumentare l’inflazione al loro interno. E’ così che, oggi, la Germania pratica un rigore interno che ne favorisce il modello mercantilista, costringendo i Paesi più deboli ad aprirsi alle sue esportazioni e a rinunciare allo sviluppo dei propri apparati industriali nazionali.
Negli anni ‘70, ricorda Cesaratto, la nostra economia ha dovuto fronteggiare gli effetti combinati della spinta salariale verso l’alto, alimentata da un lungo ciclo di lotte operaie, e dello shock petrolifero, riuscendo a resistere nella difesa della propria competitività attraverso la svalutazioni valutarie e l’aumento della spesa sociale, al fine di tamponare i conflitti sindacali e sostenere le imprese. Naturalmente ciò implicava l’aumento del debito pubblico, il che, aggiunge Cesaratto in sintonia con il pensiero di Keynes, non comportava implicazioni particolarmente preoccupanti, visto che la Banca centrale del nostro Paese era in grado di affrontare il problema, “stampando” moneta. Le cose si sono complicate allorquando le “sinistre” di governo, con i vari Andreatta, Ciampi, Padoa Schioppa, Prodi, l’intera “corte” bocconiana, la grande stampa nazionale ed i suoi opinion makers, depositari designati delle verità del nuovo corso, hanno pensato che l’Italia dovesse “importare” dall’estero regole più “sane” e stringenti allo scopo di ridefinire il conflitto sociale e porre fine a un uso troppo “strumentale” del bilancio pubblico. Il che è avvenuto in due tempi: prima con l’adesione allo SME, poi con l’ingresso nell’area dell’Euro, mentre si era già provveduto a rendere “indipendente” la Banca d’Italia, sottraendola al controllo governativo.
Una volta costruita la grande menzogna secondo cui il nostro Paese vivrebbe al di sopra dei propri mezzi, si è intrapreso quel processo che ha determinato la dismissione della nostra sovranità nazionale, attraverso l’abiura dei principi fondamentali sanciti dalla nostra Costituzione. La verità, argomenta Cesaratto, è che sono stati gli elevati tassi di interesse causati dalle scelte meramente politiche sopra descritte, e non una spesa pubblica fuori controllo, a far esplodere il debito sovrano italiano, come è inequivocabilmente dimostrato dal fatto che, all’inizio degli anni Novanta, lo Stato italiano godeva di un significativo surplus primario, ossia le entrate fiscali superavano le uscite. Per quanto riguarda poi la rinuncia ad ogni forma di democrazia sostanziale, basta fare l’elenco dei “vantaggi” che abbiamo “importato” dalla UE: la concezione liberista dello Stato “minimo”, l’abbandono dell’economia “mista”, la fine della programmazione economica e di ogni politica industriale, il ridimensionamento del potere del Parlamento a vantaggio dell’Esecutivo, la riduzione dell’autonomia impositiva degli Enti locali, la fine della scala mobile e dei diritti sociali.
Come ampiamente argomentato da diversi autori, l’ordoliberismo nordeuropeo, l’ideologia che annovera fra i suoi fondatori von Hayek e fra i suoi odierni fautori il ministro tedesco Schäuble, non è affatto assimilabile al laissez-faire classico. La Germania, infatti, “opprime” gli altri Paesi dell’orbita europea in modo tutt’altro che liberale, forzandoli all’adozione di severe misure di austerità, recessive e procicliche. Ed è qui che subentra la doppia morale: mentre la Germania costringe gli altri a sottostare al liberismo “darwiniano”, dal canto suo provvede a salvare le proprie banche con l’intervento dello Stato. Non solo: costringe gli Stati europei periferici a salvare gli istituti di credito dei Paesi del Nord, come è successo con la Grecia. Un vero affare per la Germania e assai meno per l’Italia, che ha dovuto sborsare diversi miliardi di euro al MES, il Meccanismo Europeo di Stabilità detto anche Fondo Salva Stati, al solo scopo di ripianare i debiti privati dei greci con le banche tedesche, poi “pubblicizzati” nel debito dello Stato greco. L’europeismo ordoliberista non è altro che una forma estrema di nazionalismo della potenza dominante: una politica tedesca di sostegno alla domanda aggregata sarebbe, infatti, indubbiamente un bene per l’economia globale, ma non per il modello economico tedesco.
Di conseguenza, dal lavoro dell’Autore emergono le gravissime responsabilità che le sinistre “europeiste” si sono assunte, forzando il nostro Paese a rinunciare alla propria sovranità nazionale e democratica. L’ultimo atto di questa riduzione dell’Italia a periferia semicoloniale dell’Europa a trazione tedesca è stato il tentativo, fortunatamente fallito, di archiviare con il referendum del dicembre 2016 quella Costituzione Repubblicana che tanto dispiace al turbo-capitalismo “globalista” dato che, come palesemente affermato nelle relazioni della banca d’affari J.P. Morgan, contiene elementi di socialismo.
È invece purtroppo andata in porto la costituzionalizzazione del vincolo di bilancio (art. 81 Cost.), ossia di quel Fiscal Compact che introduce, in sostanza, la messa al bando di qualsiasi politica espansiva di stampo keynesiano e, più in generale, di ogni velleità di sostenere l’economia e la coesione sociale attraverso l’intervento dell’Stato. E’ incredibile, oltre che avvilente, che vi sia ancora chi nutre aspettative in merito alla riformabilità di “questa” Europa: un progetto politico-ideologico che fin dalle origini ha perseguito il fine di sottomettere la classe lavoratrice del Vecchio Continente, asservendola al modello sfrenato di accumulazione capitalistica della “Potenza” dominante e alle sue velleità di competizione nei confronti di Stati Uniti e Cina per il dominio del mercato globale, con violentissime pressioni finanziarie, politiche, culturali e mediatiche.
E’ per questo che l’Autore giunge a sottolineare come da un simile ordine imperialista non sia purtroppo possibile uscire con le buone, ma soltanto tramite scelte radicali di “rottura” sistemica. Scelte evidentemente lontane dalle priorità liberal-libertarie delle odierne “sinistre”, che preferiscono invocare pretestuosi moti di lotta contro un immaginario pericolo fascista, piuttosto che riconoscere il nemico principale nel Moloch ordoliberista.
Introduzione
L’Autore analizza i meccanismi che regolano l’Unione Europea ed i rapporti tra gli Stati membri. Da quest’analisi si evince come, al giorno d’oggi, si sia in presenza di una vera e propria doppia morale, per cui le regole che i Paesi come l’Italia sono chiamati a rispettare non valgono per la Germania. Mutuando la celebre espressione di Orwell, in Europa tutti gli Stati membri sono uguali ma la Germania è più uguale degli altri. La sistematica violazione delle regole della moneta comune, quindi, altro non è che il nuovo strumento attraverso il quale la Germania continua a perseguire, fin dall’ascesa al trono dell’Kaiser Guglielmo II nel 1888, la propria indiscriminata volontà di espansione territoriale ed economica (Weltpolitik).
Le regole del gioco che rendono un’unione monetaria sostenibile sono, infatti, ben note alla scienza economica. Tali principi prescrivono che gli squilibri “esterni” delle partite correnti fra i Paesi di un’area valutaria vadano regolati col concorso sia dei Paesi in “avanzo” che dei Paesi in “disavanzo”. Queste regole sono analoghe a quelle già imperfettamente applicate nel sistema “aureo”, un sistema monetario internazionale a cui l’euro è da considerarsi affine, per quanto ancor più rigido rispetto ad esso. Con la copertura di precetti monetaristi, le regole nei fatti adottate nell’Eurozona sono invece altre, e sono in buona misura quelle desiderate dalla potenza europea dominante, la Germania, in maniera tale che la moneta unica non ne contraddica il modello economico mercantilista. Il fatto che tali regole non abbiano funzionato nello stabilizzare l’area euro è condiviso: ma perché sbagliate, oltre che contorte, o perché non rispettate? L’attuale processo di riforma delle regole sembra basarsi sulla seconda tesi.
Capitolo I
Il nostro Paese ha intrapreso il periglioso sentiero della moneta unica seguendo l’infausta l’argomentazione, patrocinata in particolare da economisti ed esponenti politici dell’area del centro-sinistra, che il Paese sarebbe stato in grado di regolare i propri conflitti e un uso considerato troppo spregiudicato del bilancio pubblico solo attraverso l’importazione di regole dall’esterno. Il Paese sembra però aver pagato duramente questa scelta, in termini economici e sociali, attraverso un rigore fiscale che ne ha minato la domanda interna, la produttività e, di conseguenza, i medesimi conti pubblici.
L’Autore prende le mosse dalle difficoltà dell’Italia del miracolo economico nell’incontrare le esigenze di giustizia distributiva e di modernizzazione del Paese. Dopo la nascita della Repubblica, i governi che si succedettero misero in campo una serie di politiche che riuscirono a ridurre il divario tra nord e sud. Ma a causa dell’arretratezza di parte della borghesia italiana, dello stesso PCI e della DC, che non furono all’altezza di trovare una via riformista che coniugasse giustizia sociale e mercato, le politiche economiche messe in campo non riuscirono a produrre gli effetti desiderati. Al pari della Germania, ma partendo da livelli di industrializzazione più modesti, l’Italia ebbe il suo boom economico nel periodo 1951–1963. Il tentativo riformista si rivelò, però, presto fallimentare già agli inizi degli anni ’60.
La classe dirigente che aveva guidato la ricostruzione ed il “miracolo” si rivelò tuttavia inadeguata a realizzare appieno il disegno di riforme. Non fu sufficiente nemmeno la cooptazione da parte della DC del PSI per spingere i governi di centrosinistra verso una più incisiva modernizzazione e verso una maggiore giustizia sociale. La risposta della borghesia divenne, quindi, ancora più repressiva e cominciò la stagione del sangue con lo stragismo “nero”, appoggiato da settori dello Stato, e con la sciagurata lotta armata. Già nel 1963 si udì il tintinnio di sciabole e le prime lotte operaie furono stroncate con la stretta creditizia. Il conflitto riesplose negli anni ’70, governato in un qualche modo dal modello inflazione/svalutazione e dall’espansione della spesa pubblica con il livello del debito tenuto sotto controllo da tassi di interesse reali negativi. La stabilità dei prezzi assurse a simbolo e vittima di un irrisolto conflitto distributivo.
Si pensò, quindi, di cercare al di fuori del nostro Paese la soluzione per coniugare giustizia sociale e mercato. L’ideologia “europeista” divenne la sovrastruttura culturale e politica per giustificare la delega ad istituzioni terze del controllo dell’economia e delle politiche di bilancio dello Stato italiano. Attraverso lo SME e poi con il “divorzio” Governo-Banca d’Italia, tristemente noto come il colpo di Stato “bianco” di Andreatta e Ciampi con il quale la Banca d’Italia non avrebbe più potuto sostenere la collocazione dei titoli del debito pubblico italiano a tassi ragionevoli, il nuovo regime intese porre nuova disciplina al sistema. Il modello degli anni ‘80 fu però contraddittorio. Il combinato disposto della perdita di competitività esterna e del sostegno alla domanda interna da parte di governi che avevano ancora in mente la crescita, e gli elevati tassi che ne conseguirono, fece infatti due vittime, in parte sovrapposte: il debito pubblico e il debito estero.
Negli anni ‘80, con la sconfitta operaia alla Fiat, il conflitto di classe “tradizionale”, quello proletari-capitale, era ormai sedato. Probabilmente, non lo fu però quello proveniente dalla borghesia “parassitaria”. La svalutazione del 1992 fece, nelle parole del prof. Paolo Onofri, tirare il fiato a un’economia esausta. La firma del Trattato di Maastricht da parte di chi, come Guido Carli, aveva consapevolezza piena delle conseguenze, diede la possibilità al nuovo regime di riaggiustare il modello degli anni ’80, rendendolo coerente attraverso l’accoppiata di disciplina esterna ed interna. Dal 1991 la politica fiscale diviene infatti coerente e restrittiva. Paradossalmente, la liberalizzazione dei movimenti di capitale e gli elevati tassi di interesse portarono il rapporto debito-PIL a esplodere ulteriormente nella prima metà degli anni ‘90. Solo con la prospettiva dell’adesione alla moneta unica i tassi cominciano a diminuire e questo aiutò la riduzione di quel rapporto di circa 25 punti. Vittime del combinato disposto di un tasso di cambio che si fa progressivamente meno competitivo e della disciplina fiscale sono la crescita e, ancor più, la crescita della produttività.
A differenza delle storie che ci raccontano il dott. Carlo Cottarelli e gli opinionisti del mainstream, è a livello macroeconomico, nella stagnazione della domanda aggregata, che vanno trovati i semi della crisi economica italiana. Ancora oggi, senza una reale ripresa della domanda interna ed insistendo nella vana speranza che un euro competitivo possa sostenere quella esterna, non c’è alcuna concreta possibilità di ripresa. Tutto ciò rende, di conseguenza, ineludibili ulteriori azioni di distruzione della domanda interna, ossia a discapito del lavoro e dei salari (Austerity), al fine di riequilibrare la bilancia dei pagamenti ed inseguire al “ribasso” la competitività dei Paesi dominanti.
Il nostro Paese è finito in questa “trappola” a causa di un grave fallimento istituzionale: aver cercato nella disciplina esterna il surrogato di un compromesso sociale interno. Possiamo tentare di risalire alle responsabilità, se di una borghesia assai poco capace ed illuminata o di un partito comunista non evoluto in socialdemocratico, se non più tardi ed in forma del tutto equivoca e deviata. Se oggi, da un lato, siamo consapevoli di come il Paese abbia pagato la disciplina esterna sacrificando la crescita, il problema di un nuovo compromesso sociale continua inevitabilmente a porsi, in una situazione di crisi ormai perenne in cui il tessuto sociale non è certo più quello fordista, ma è assai più frammentato e disarticolato.
Capitolo II
La violazione delle regole di corretto funzionamento dell’unione valutaria hanno generato la crisi dell’Eurozona, sebbene tale inosservanza abbia all’inizio portato momentanei vantaggi ad alcuni Paesi europei, tra cui la Germania, nell’effimera convinzione ideologica che, grazie alla stessa moneta unica, gli squilibri di partite correnti tra i Paesi aderenti si auto-compensassero divenissero conseguentemente irrilevanti.
L’euro, infatti, è stato costruito in violazione di quanto la teoria economica suggeriva con la teoria delle aree valutarie ottimali. Il tutto seguendo alla lettera le sconsiderate teorie monetariste della necessità del vincolo esterno, messe a punto dagli economisti bocconiani. La guerra commerciale con gli USA in cui la Germania sta trascinando il resto d’Europa ne è l’ulteriore dimostrazione. Il sistema della moneta unica europea, l’euro, si presenta come un’unione monetaria a cambi fissi senza coordinamento e condivisione a livello fiscale tra gli Stati membri; ed è proprio da qui che scaturiscono una serie di elementi che hanno determinato la crisi economica, sociale e politica che stiamo ancora vivendo.
La Germania ha sempre e solo guadagnato nell’euro. Prima della crisi ha alimentato le bolle immobiliari nella periferia europea e le spese governative degli Stati ”periferici” allo scopo di incrementare le proprie esportazioni intra-europee. Successivamente, ha usufruito anche della crisi dell’indebolimento dell’euro per incrementare le esportazione extra-europee, godendo inoltre di tassi di interesse negativi sul proprio debito pubblico in seguito alla fight to quality a favore dei Bund tedeschi e alle politiche accomodanti della BCE. Al contempo, il debito pubblico italiano veniva lasciato in pasto ai mercati dall’inerzia della BCE pre-Draghi, mentre la Germania aveva salvato nel 2008 le proprie banche con centinaia di miliardi di euro provenienti dal bilancio statale. Banche speculative e protagoniste della famosa crisi americana dei mutui subprime.
L’ideologia europeista, sostenuta da un ceto politico e intellettuale genericamente di centro-sinistra, ha avuto la pretesa di correggere e al contempo “educare” gli italiani alla disciplina fiscale limitando la sovranità dello Stato nazionale e consegnando il Paese agli “stranieri”. Il risultato è la costruzione di una Unione Europea che si identifica completamente con il mercato e l’ideologia liberista: non sono solo imprese e lavoratori ad essere in concorrenza tra di loro, ma anche gli stessi sistemi nazionali e regionali. In un mercato dove gli scambi finiscono con l’essere regolati da una moneta in regime di cambio fisso, la concorrenza si riverbera inevitabilmente sui più deboli incidendo su salari, diritti sociali e riduzione della spesa pubblica. La soluzione dei problemi viene quindi delegata in toto al mercato, e alla sua auto-regolamentazione, secondo i dettami “ordoliberisti” tedeschi.
Capitolo III
Il modello tedesco è incompatibile con le regole del “gioco”, anzi è fondamentalmente basato sulla trasgressione di tali principi. Ciò non sorprende, in quanto il mercantilismo monetario tedesco è precisamente l’opposto della cooperazione richiesta in un’unione economica e valutaria mutualmente vantaggiosa e, di conseguenza, sostenibile. La Germania ha tratto dalla moneta unica diversi vantaggi, spesso applicando un codice etico ad hoc per se stessa e una differente morale per gli altri, per di più dimostrando una assai scarsa memoria storica. In virtù della moneta unica, la Germania ha rafforzato il proprio modello mercantilista garantendosi una condizione di super competitività a spese altrui. Tutto ciò rende oggi quasi impossibile un riequilibrio “endogeno” dell’Eurozona, anche nella remota ipotesi in cui Berlino cominciasse a posteriori a dimostrare maggiore lealtà verso gli impegni assunti.
Di esempi storici di doppia morale l’Autore ne riporta svariati, dal condono del debito di guerra tedesco fino a giungere all’inflessibilità della Germania verso il debito altrui. Naturalmente, la violazione più macroscopica è quella dell’unica regola che rende un’unione monetaria sostenibile: il Paese leader ha l’onore e l’onere di fungere da vera “locomotiva” del sistema, sostenendo la propria domanda interna a costo di un’inflazione superiore alla media. Mundell nel 1961 predisse chiaramente che la Germania non l’avrebbe mai fatto. Paolo Baffi lo comprese a sua volta, come capì che senza svalutazione esterna, la svalutazione interna sarebbe costata disoccupazione e distruzione di capacità produttiva. Le due svalutazioni non sono equivalenti. Un monetarista americano lo capisce benissimo. Certi giornalisti italiani, purtroppo, non vogliono o non possono proprio farlo.
Capitolo IV
L’Autore prosegue nella sua analisi, proponendo un suggestivo excursus delle proposte di riforma degli ordinamenti di politica fiscale dei Paesi dell’Eurozona. Alle timide ed alquanto strumentali aperture della Francia verso una governance fiscale comune, la Germania sembra aver risposto con la proposta di un paradossale ulteriore irrigidimento delle regole esistenti. Le proposte tedesche si basano, infatti, sul principio che il settore privato debba subire perdite nel caso di un intervento finanziario europeo in favore di un Paese membro in difficoltà debitoria. Con uno sguardo all’Italia, questo significa rendere il suo debito pubblico più rischioso e, dunque, più insicuro ed instabile. E’ imprescindibile, di conseguenza, che il nostro Paese ponga un veto definitivo a qualsiasi tentativo di adozione di simili irresponsabili proposte da parte della controparte tedesca, intraprendendo la strada di una reale stabilizzazione del debito pubblico. Se, da un lato, un’effettiva riforma dell’Eurozona richiederebbe un’unione politica, dall’altro il modello tedesco appare sempre più irrimediabilmente come un ostacolo, anche nei confronti di proposte parimenti ragionevoli ma assai meno ambiziose
Il ministro tedesco Schäuble, con il famoso non-paper, ha stroncato in nuce le timide proposte del Presidente francese Macron in merito all’istituzione di un (seppur irrilevante) fondo europeo anticiclico. La Germania, infatti, esige una stabilità dell’euro costruita esclusivamente sull’austerità fiscale. Essa è assicurata solo dalla disciplina dei mercati e dalle regole fiscali e, secondo l’establishment tedesco, ambedue non avrebbero funzionato efficientemente. La disciplina dei mercati, che si esplica attraverso la manovra dei tassi di interesse, deve essere quindi rafforzata minacciando gli operatori della finanza con la possibilità di ristrutturazione dei debiti a detrimento crediti privati in caso di “salvataggi” europei. Le regole di bilancio si vorrebbero ulteriormente irrigidite e sottratte al giudizio, considerato troppo politico, della Commissione, per essere poi assegnate ad un nuovo Fondo Monetario Europeo, un MES rafforzato, con poteri estremamente intrusivi nei riguardi dei bilanci statali e delle prerogative parlamentari nazionali.
Tutto ciò potrebbe portare, come già nell’ottobre 2010, ad un rialzo vertiginoso dei tassi sul debito italiano. Il veto italiano contro queste proposte di totale “esternalizzazione” della gestione dei debiti nazionali avrebbe dovuto costituire una nuova ed invalicabile linea del Piave nei confronti delle ingerenze egemoniche della Germania, ma la pochezza e la bassezza dichiaratamente anti-italiana di gran parte della sinistra ha prodotto, al contrario, solo la statuizione della fine del Quantitative Easing da parte della BCE, ossia dell’unico meccanismo di calmieramento del differenziale tra il tasso d’interesse “privilegiato” dei Bund tedeschi ed il costo di rifinanziamento del debito pubblico dei Paesi periferici dell’Eurozona e, quindi, dell’Italia.
Conclusioni
L’Autore conclude il suo saggio ponendo nuovamente in evidenza come questa Unione Europea e questa Unione Monetaria siano state un azzardo dal quale alcuni Paesi hanno tratto beneficio ed altri no. Già dal 2010 centinaia di economisti hanno proposto l’obiettivo della stabilizzazione del rapporto debito/PIL come target plausibile. Tutto ciò, però, richiede un reale impegno europeo che è l’opposto del “terrorismo” finanziario, politico culturale e mediatico appena esposto. Con tassi di interesse sufficientemente bassi, questa stabilizzazione è coerente con i disavanzi primari, dunque con una politica fiscale moderatamente espansiva. Naturalmente, anche al fine di evitare il rafforzamento dell’euro e di scongiurare le guerre commerciali frutto dei surplus tedeschi, il tutto richiederebbe anche politiche fiscali di carattere espansivo in quella stessa Germania che, al contrario, persegue costantemente avanzi di bilancio e non consente ai suoi cosiddetti “partner” europei di esportare.
Tutto questo è indubbiamente ragionevole, ma la ragione sembra aver cambiato casa e non risiedere più in Europa, dove era nata. E’, però, quanto mai necessario ricordarsi che già nel recente passato la ragione andò in letargo nel Vecchio Continente (e sempre dalle solite parti), con gli esiti che tutti tristemente conosciamo. Dice sempre Cesaratto, possiamo criticare la classe dirigente tedesca per molte cose, in particolare, di condividere un pensiero economico a dir poco bigotto. Ma non la si può biasimare per il suo “patriottismo economico”. Di fronte alla volontà neocoloniale della Germania è quindi sempre più urgente mettere in campo una nuova coesione nazionale, una nuova linea del Piave che, in Italia, possa fungere da argine invalicabile verso le aspirazioni egemoniche tedesche. Diceva Leopardi nello Zibaldone: senza amor nazionale non si dà virtù grande.
Dott. Matteo Fulgenzi
BIBLIOGRAFIA
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FONTI WEB:
agoravox.it – di Gerardo Lisco (04/07/2018)
goofynomics.blogspot.com – blog di Alberto Bagnai
interessenazionale.net – sito dell’Associazione culturale fondata da Diego Fusaro
politicaeconomiablog.blogspot.com – blog di Sergio Cesaratto
temi.repubblica.it/micromega-online – di Carlo Formenti (22/05/2018)