Le relazioni diplomatiche tra Cina e Italia attraversano il momento migliore registrato dalla storia contemporanea e la cooperazione tra i due Paesi avanza verso una nuova fase di sviluppo di alto livello, onnicomprensiva e sostenibile. Ciò è possibile grazie alla fiducia politica reciproca, alla complementarità strutturale tra i due Paesi e al ruolo di catalizzatore giocato dai nuovi meccanismi di cooperazione.
Le “Vie della Seta” della Cina. Fonte: Council on Foreign Relations.
In particolare, la Belt and Road Initiative (BRI) promossa dalla Cina è diventata la nuova piattaforma in cui approfondire la collaborazione sino-italiana. Da quando il Presidente cinese Xi Jinping promosse nel 2013 la cintura economica della via della seta e la via marittima della seta del XXI secolo (ossia la rotta terrestre e quella marittima che compongono la BRI), la Belt and Road Initiative è diventata gradualmente per la Cina lo strumento più importante per cooperare economicamente con gli altri Paesi e ha attirato il crescente interesse degli Stati europei, incluso naturalmente quello dell’Italia.
La Belt and Road Initiative (BRI) è, infatti, un programma infrastrutturale che punta a sviluppare la connettività e la collaborazione tra la Cina e circa 70 Paesi, creando uno spazio economico eurasiatico integrato. La Belt and Road Initiative, attraverso sei corridoi di trasporto, via terra e via mare, consentirà al Paese di diversificare le rotte commerciali e di intensificare le relazioni esistenti con l’UE. Nel triennio 2014-2017 per la Nuova Via della Seta, la Cina ha già investito 70 miliardi di dollari in 1.400 progetti per la generazione elettrica e la costruzione di ferrovie, porti, strade e parchi industriali. L’iniziativa, per cui sono in programma ulteriori investimenti per 130 miliardi di dollari all’anno fino al 2022, rappresenta un’opportunità anche per le aziende italiane, non solo per gli investimenti previsti ma anche per gli effetti che avrà sull’economia dei Paesi coinvolti.
La Via della Seta: storia, numeri, obiettivi. Fonte: AIIB
Le nostre imprese di costruzione sono infatti già presenti in oltre 40 degli attuali Stati coinvolti nell’iniziativa BRI, con contratti per un valore complessivo di oltre 36,6 miliardi di euro (pari al 40% del totale delle commesse in corso – 90,8 miliardi – aggiudicate dalle imprese edili italiane nel mondo) concentrati nella realizzazione di sistemi infrastrutturali come strade, ferrovie e metropolitane.
Le commesse delle aziende italiane di costruzione all’estero hanno raggiunto il valore di 90,8 miliardi di euro nel 2016. Fonte: Ance
A livello commerciale i Paesi BRI assorbono il 27% dell’export italiano nel mondo: in particolare, la Cina rappresenta il nono mercato per le esportazioni di prodotti Made in Italy, che nel 2016 hanno toccato gli 11,1 miliardi di euro (+6,4% rispetto all’anno precedente) e dovrebbero registrare un ulteriore incremento di 296,8 milioni entro il 2020. L’Italia è il quinto partner commerciale di Pechino, nonché uno dei principali destinatari degli investimenti cinesi all’estero.
Considerando il richiamo dei prodotti italiani nel mondo e il fatto che più del 20% della popolazione cinese è interessata al consumo di alimenti di qualità e d’importazione, l’agroalimentare, ad esempio, è uno dei molteplici settori dell’economia italiana che dovrebbe poter beneficiare maggiormente del progetto BRI. Per ora il nostro Paese è al ventunesimo posto tra i partner commerciali di Pechino nel comparto ma la crescente domanda di alimenti sicuri da parte della popolazione cinese è uno stimolo all’importazione di prodotti finiti e allo sviluppo in loco di tecniche di conservazione di alimenti freschi.
Roma, da parte sua, ha proposto a Pechino di includere nelle nuove vie della seta tre nuove rotte: aerea, spaziale e culturale. In ciascuna, l’Italia può dare il suo contributo. Nel primo ambito rientra la possibile partecipazione cinese in Alitalia. Pechino cerca anche uno snodo logistico da cui far operare le proprie compagnie aeree che volano in Africa. Questo ruolo potrebbe essere egregiamente svolto dall’aeroporto di Fiumicino a Roma. Nel secondo ambito, rileva il ruolo dell’Agenzia spaziale italiana, quale unica agenzia straniera autorizzata a costruire una componente della stazione aerospaziale cinese.
Inoltre, Cina e Italia hanno molto da condividere nell’ambito di una reciproca “attrattività” culturale, un vantaggio che incide su tutti gli altri ambiti della collaborazione economica, tra cui il già citato settore agroalimentare, quello infrastrutturale e, infine, il turismo. Non bisogna dimenticare poi le opportunità che nel contesto cinese offre rispettivamente il sistema assicurativo, sanitario e pensionistico. La Repubblica Popolare sta invecchiando rapidamente e fra vent’anni avrà problemi demografici simili a quelli dell’Italia di oggi. Possiamo far tesoro della nostra esperienza per fare nuovi affari in Cina.
Gli IDE in entrata e uscita dalla Cina nel periodo 1980-2016. Fonte: UNCTAD
Inoltre, anche la crescita totale degli investimenti, in particolare di quelli cinesi in Italia, è stata alquanto notevole. Alla fine del 2013, questi erano meno di 1 miliardo di dollari. Nel solo 2014, questi sono stati pari a 3,5 miliardi di dollari e l’anno dopo sono cresciuti ancora. Alla fine del 2016, gli investimenti italiani in Cina hanno raggiunto i 7 miliardi di dollari, mentre quelli cinesi nella penisola hanno toccato gli 11 miliardi. L’Italia è diventata una delle principali destinazioni degli investimenti cinesi in Europa.
In questo nuovo panorama delle relazioni commerciali di Pechino un aspetto di particolare importanza, soprattutto per l’Italia, è costituito dal ruolo crescente del Mediterraneo. A oggi, infatti, la tratta Europa-Estremo Oriente che passa per il Mediterraneo pesa per il 42% del mercato globale, a fronte di un 44% della tratta transpacifica. Tale sostanziale equilibrio è stato raggiunto solo negli ultimi anni: nel 1995 le rotte attraverso il Pacifico dominavano ancora il mercato, con una quota del 53% dei traffici globali (a fronte del 27% registrato sulla tratta Europa-Estremo Oriente attraverso il Mediterraneo e il Canale di Suez). Secondo le stime cinesi, negli ultimi cinque anni il numero di navi portacontainer nel Mediterraneo è aumentato di oltre il 20%: un dato destinato a salire, anche in considerazione della crescente presenza cinese in Africa sub-sahariana e nell’area MENA. In tale regione infatti, l’interscambio cinese, realizzato quasi esclusivamente via mare, è più che decuplicato nel periodo 2001-2015, raggiungendo quasi 258 miliardi di dollari (che potrebbero salire a circa 300 nel 2020).
Volume del commercio fra Cina e regioni del Mediterraneo. Fonte: elaborazione T.wai su dati dell’International Trade Center
L’Italia, con una quota del 2,58%, è il quarto maggiore azionista dell’Asian Infrastructure Bank (AIIB), nonché uno dei suoi membri fondatori dal 2015. La Cina ha svolto un ruolo determinante nella creazione dell’AIIB, operativa da maggio 2016 con un capitale finanziario di ben 100 miliardi di US$, ma è necessario precisare come la AIIB non sia una banca “esclusivamente” cinese. La AIIB esercita una funzione di forte impulso in materia di sostegno allo sviluppo delle infrastrutture di connettività. A oggi, la Banca ha co-finanziato con altre Banche multilaterali di sviluppo 24 progetti, concentrati nei settori dell’energia (oltre il 30%), dei trasporti (30%) e idrico (meno del 20%) per oltre 4 miliardi di dollari. I progetti sono stati realizzati principalmente nell’Asia meridionale e nel Sud-Est asiatico, e in via residuale in Nord Africa, in Asia Orientale e Centrale.
Le operazioni di finanziamento della AIIB prevedono in primo luogo finanziamenti (ai migliori tassi di mercato) e garanzie a entità sovrane e non sovrane ma garantite da Stati sovrani; in secondo luogo prestiti o garanzie a favore di entità non sovrane non garantite da entità sovrane (cioè imprese private, a partecipazione statale e autonomie locali) e investimenti in private equity. Considerato l’ampio capitale a disposizione, l’AIIB ha gli strumenti per erogare cospicui finanziamenti. Le imprese italiane, forti del know-how e dell’expertise maturate negli anni, anche in Paesi terzi, dovrebbero cogliere le opportunità offerte dallo sviluppo di progetti nei settori e nelle aree geografiche di maggiore interesse dell’AIIB, anche grazie all’apporto finanziario erogato dallo stesso Stato italiano.
Le sottoscrizioni di capitale dei vari Paesi membri della Asian Infrastructure Investment Bank aggiornati a giugno 2017. Fonte: AIIB
Alla luce di questo contesto di riferimento, l’Italia, dotata di eccellenti porti (ad esempio, Alto Adriatico, Alto Tirreno ed eventuali altre opportunità che dovessero aprirsi) e infrastrutture, collegata ai principali corridoi europei tramite efficienti reti stradali e ferroviarie, riconosciuta come seconda base manifatturiera d’Europa (dopo la Germania), Paese leader nell’innovazione tecnologica, forte sul piano industriale, scientifico e tecnologico, con un gran numero di piccole e medie imprese dinamiche e innovative, è un terminale ideale della Nuova Via della Seta e può diventare un hub strategico nelle rotte commerciali tra Europa e Cina.
Non è un caso che, nel 2015, Pechino abbia promosso il programma strategico Made in China 2025 seguita, l’anno dopo dal Governo italiano con il piano Industria 4.0. Considerata la grande complementarità tra i due Paesi in merito a tecnologia, capitali, mercato e altri aspetti, lo spazio per promuovere la combinazione delle rispettive strategie di sviluppo industriale attraverso la cooperazione è assai ampio. Durante la visita in Cina del presidente Mattarella lo scorso febbraio, i due Paesi hanno firmato la «strategia comune Cina-Italia per la scienza e la tecnologia del 2020» e ci si aspetta che in futuro i due Paesi puntino sulla BRI per approfondire ulteriormente la loro cooperazione industriale.
Oltre all’apertura di nuove rotte commerciali, un’altra opportunità collegata allo sviluppo della BRI riguarda le cooperazioni “triangolari”, ovvero lo sviluppo di collaborazioni tra aziende cinesi e aziende straniere per la realizzazione di iniziative commerciali e progetti congiunti in Paesi terzi. La messa a fattor comune dei rispettivi punti di forza (abbondanza di finanziamenti nel caso cinese; know-how e consolidata presenza in moltissimi mercati internazionali nel caso delle aziende europee) può assicurare comuni benefici in una molteplicità di aree geografiche, molte delle quali di consolidata esperienza per le compagnie italiane. La Cina è già fortemente presente nel Continente Nero, ma è alla ricerca di un Paese europeo di riferimento prospiciente ad esso con cui collaborare. Questa per l’Italia è una grande occasione.
La BRI è stata lanciata da Pechino ma la sua realizzazione non dipende assolutamente soltanto dalla Cina, la quale ha bisogno di condividere, dialogare e collaborare con tutti i Paesi che si trovano lungo le sue rotte. Per questa ragione, Pechino definisce la BRI un’«iniziativa» (changyi) piuttosto che una «strategia» (zhanlue). Come ha affermato il ministro degli Esteri cinese Wang Yi durante una conferenza stampa in occasione delle cosiddette «Due sessioni» del 2017, la Cina deve far diventare la BRI un «bene pubblico internazionale». In quanto tali, le nuove vie della seta devono essere caratterizzate dalla «non esclusività» al fine di accogliere la partecipazione di un numero crescente di Paesi e con loro espandere l’impatto di questo bene pubblico. La Repubblica Popolare punta sugli investimenti. Questi facilitano la crescita economica, la quale è un presupposto essenziale della stabilità politica dei Paesi coinvolti.
In particolare, Pechino spera di cooperare in maniera sempre più pragmatica con gli Stati più geograficamente e/o economicamente rilevanti. Non solo per perseguire benefici reciproci e una situazione vantaggiosa per tutti, ma per permettere a un numero crescente di Paesi e regioni di trarre giovamento da tale iniziativa. L’Italia rientra indubbiamente in questo contesto: la collaborazione infrastrutturale con le aziende italiane è utile sia per il valore delle nostre conoscenze tecnologiche sia perché la presenza di un partner occidentale rassicura i Paesi che ospitano l’investimento. La nostra reputazione all’estero è esattamente ciò che serve a Pechino per superare le perplessità degli altri Paesi circa le proprie attività economiche (soft power).
Il vantaggio competitivo italiano nel contesto BRI ed i principali “controinteressati”
Pur nella complessità e nell’ambiguità della partita in corso, la Belt and Road Initiative cinese costituisce un’occasione irripetibile di ri-centralizzazione dell’Italia lungo le rotte globali. Lo dicono fattori oggettivi che hanno la necessità di essere corroborati dalla ferma volontà di sfruttarli nonostante il contesto fortemente competitivo. La partita prevede molte mani che si giocano a terra sul fronte ferroviario transcontinentale, ma quella cruciale si decide sui mari. La via marittima tratta l’85% del traffico tra Europa ed Estremo Oriente. Il restante 15% si divide fra traffico ferroviario, più veloce e costoso di quello marittimo (quindi soluzione preferenziale per le merci deperibili) ma non di quello aereo, quest’ultimo più veloce ma anche notevolmente più costoso della ferrovia.
L’Italia, come già anticipato, ha a disposizione buone strutture portuali. All’inizio del 2005, la China Ocean Shipping (Group) Company (Cosco) Europe ha acquisito il più grande operatore di terminal per container del porto di Napoli (Conateco) e ha ottenuto la gestione di una sua parte. È stato il prologo che ha dato inizio a una serie di cooperazioni portuali sino-italiane. Negli ultimi due anni, sulla scia della BRI, tale ambito ha registrato nuovi sviluppi. Nell’ottobre 2016, la Cosco ha acquisito il 40% della Vado Holding dalla MaerskGroup’s Apm Terminal e ha cominciato a partecipare alla gestione del terminal container di Vado Ligure. Dalla data di completamento (prevista già nel 2018), questo sarà l’unico semiautomatizzato del Nord Italia in grado di gestire le megaportacontainer da oltre 18 mila teu. Nonostante i sopramenzionati progetti, i porti italiani non sono però (ancora) pienamente coinvolti nella BRI. Tra le ragioni per cui la Cosco ha scelto il porto greco del Pireo invece dei porti italiani come hub nel Mar Mediterraneo, vi è che questi hanno in generale dimensioni ridotte, la profondità dei loro fondali non è sufficiente e, di conseguenza, hanno difficoltà ad accogliere navi cargo grandi e ultra-grandi e una ridotta capacità di approdo.
Dal punto di vista delle vie della seta marittime, infatti, l’Italia si trova certamente sul percorso della catena logistica che garantisce il costo minimo di trasporto sulla relazione Europa-Estremo Oriente, purché si investa nello sfruttamento del nodo marittimo Alto Adriatico, combinando l’offerta di Venezia (essenziale e integrabile con Ravenna) con quella di Capodistria-Trieste. Il sentiero di percorso minimo è quello che meglio soddisfa l’interesse collettivo, consentendo agli utenti dei servizi di trasporto, ossia alle imprese e alle famiglie, di migliorare rispettivamente la propria competitività ed i propri livelli di consumo. Ogni deviazione dai sentieri di costo minimo è una inefficienza che spesso nasconde sacche di rendita gelosamente difese dagli incumbents (ossia dagli attuali attori principali della logistica globale) i quali, anche solo per questo, agiscono come freno al cambiamento.
Il carico di una meganave che parta da Shanghai per raggiungere il cuore dell’Europa minimizza, infatti, il costo di trasporto e logistico per singolo teu alle seguenti condizioni:
- A) massimizzare la tratta percorsa via mare, avvicinandosi al cuore dell’Europa attraverso l’Alto Adriatico. La massimizzazione della tratta percorsa via mare si traduce in un risparmio di costo se per correrla si utilizza sempre e soltanto una meganave (oltre 18 mila teu) senza ricorrere al transhipment;
- B) minimizzare la distanza percorsa via terra, usando quanto più possibile gli scali italiani dell’Alto Adriatico, porti che per la loro posizione geografica rispetto al mercato manifatturiero europeo, spostatosi in questi anni dall’Europa centroccidentale all’Europa centrorientale, sono più vicino al baricentro del mercato continentale. La rotta di costo minimo ha una sua forza oggettiva, cui tra l’altro va aggiunto il non trascurabile beneficio ecologico di sistema. Ma per imporsi a vantaggio delle economie europea e italiana, un tale nuovo assetto avrebbe bisogno di politiche comunitarie e nazionali di settore ricettive, ossia capaci di riconoscere il reale vantaggio collettivo e di mantenere la prospettiva alto-adriatica al riparo dalle pressioni delle parti contro interessate.
La più potente spinta alla deviazione, quella che interferisce in mille modi nella politica dei trasporti e delle infrastrutture dell’Unione Europea, è prodotta dai Paesi che si affacciano sul Mare del Nord. I quali tentano di convincere gli utenti ad utilizzare i loro porti, anziché quelli mediterranei, in nome dei (presunti) vantaggi prodotti dalle economie di scala che sono in grado di produrre nella fase portuale e dalla larga rete di navigazione interna. Vantaggi che dovrebbero compensare i cinque giorni in più di navigazione e le più lunghe distanze terrestri inflitte ai carichi. È una competizione dura, sorda, piena di colpi sotto il tavolo, che usa argomenti da «post-verità», come quello della sovraccapacità portuale, o spinge addirittura la Corte dei Conti europea ad invitare ad usare i porti già disponibili (ossia quelli del Mare del Nord) e a non “sprecare” risorse nella realizzazione di nuove infrastrutture nel “pigro” mediterraneo.
Inoltre, è la stessa Cina, con l’acquisizione del controllo del porto del Pireo, ad alimentare la tentazione “alternativa” di raggiungere il cuore dell’Europa manifatturiera centrorientale attraverso il Mediterraneo, vertendo però poi sull’asse che da Atene, per via ferroviaria/stradale, giunge, attraverso i Balcani, fino a Budapest. Va infatti in questa direzione l’impegno cinese a collaborare alla realizzazione della tratta ferroviaria ad alta velocità/alta capacità Budapest-Belgrado del prossimo prevedibile core corridor europeo Atene-Budapest.
Esiste poi la concorrenza latente dei porti del Mar Nero che oggi sono in stallo solo per le instabilità turche e ucraine. Si tratta di spinte alla deviazione minori e potenziali, ma che potrebbero irrobustirsi se le indecisioni sull’Alto Adriatico dovessero persistere. Non è inoltre trascurabile lo stesso tentativo di deviazione dal sentiero di costo minimo operato dalla portualità alto-tirrenica rispetto a quella alto-adriatica. Anche qui si punta sulla maggior portata di attività storica e sulle relative economie di scala sul versante Tirreno, al fine di compensare l’impossibilità di raggiungere a costi competitivi i nuovi mercati del Nord-Est italiano e dell’Europa centrorientale rispetto al corridoio alto-adriatico.
Spinte alla deviazione e incertezze che possono determinare ritardi decisivi vengono peraltro dall’interno dello stesso Alto Adriatico, dalla stessa riluttanza a far propria la constatazione che l’Adriatico è un mare con due sponde e due mercati. L’Alto Adriatico deve il suo vantaggio oggettivo al fatto di poter contare su scali, come Ravenna e Venezia da un lato, Trieste, Capodistria e Fiume dall’altro, capaci di servire due hinterland terrestri differenti, sommandoli rispetto al traffico marittimo. Una nave megaportacontainer da 18 mila teu e più in arrivo da Shanghai, attraccando a Venezia e Ravenna, è capace di servire la pianura Padana, e di conseguenza i mercati svizzero e tedesco meridionale, mentre, raggiungendo Trieste, Capodistria e Fiume, raggiungerà i mercati austriaco, ungherese e dei Balcani.
Per accogliere queste meganavi, Venezia e Ravenna, ricchi di spazi a terra, hanno bisogno di aumentare la loro accessibilità nautica, usando una comune piattaforma d’altura come il Voops (Venice offshore-onshore port system), il sistema portuale innovativo offshore-onshore in corso di progettazione da parte di operatori cinesi, in consorzio con società di ingegneria italiane, e di prepararsi a sfruttare anche il valico ferroviario del Brennero, così come già da oggi i valichi svizzeri, compreso il Gottardo e, parzialmente, quello di Tarvisio. Allo stesso scopo i porti di Trieste, Capodistria (Koper) e parzialmente Fiume (Rijeka), poveri di spazi a terra e/o con ferrovie da ammodernare (sicuramente per la parte sloveno-croata) possono fungere da allibo l’uno per l’altro sempre per accogliere l’approdo delle nuove meganavi portacontainer. Va da sé che le ferrovie, come infrastrutture e operatori, debbano utilmente impadronirsi della tratta terrestre della via della seta intermodale marittimo-terrestre, centrata sul «binodo» alto-adriatico: Venezia-Ravenna a ovest, Trieste-Capodistria a est.
La BRI è una «cintura» e va rimarcato come il traffico ferroviario sia conveniente solo se bilanciato, ovvero se i treni ritornano con un nuovo carico, mentre questo bilanciamento è più facile da ottenere nel traffico marittimo. Per l’Italia, sarà quindi essenziale implementare anche le infrastrutture retroportuali e ferroviarie. In tale contesto è rilevante l’impegno italiano nello sviluppo delle Reti di Trasporto Trans-Europee (acronimo inglese Ten-t) e in particolare dei quattro corridoi Nord-Sud incrociati trasversalmente dal corridoio mediterraneo. La loro entrata in funzione, prevista per il 2030, permetterebbe all’Italia di trasportare verso il Nord-Europa i flussi commerciali da sud e da est e di acquisire un ruolo di primo piano anche lungo la via della seta ferroviaria.
La BRI ha dunque bisogno di integrare il traffico terrestre con quello marittimo. Trieste, ad esempio, può legittimamente candidarsi a svolgere un ruolo di singolare interfaccia fra navi e treni. Non va sottovalutato però il ruolo di Capodistria, unico porto della Slovenia, (praticamente ancora inesistente nel 1954) che, grazie ad un minor costo del lavoro e ad una minore tassazione, è oggi arrivato a superare ampiamente il porto di Trieste quanto a container e convogli ferroviari, tanto da saturare l’annessa linea ferroviaria (di cui è in progetto il potenziamento anche con investimenti esteri). È singolare che due porti distanti solo 6 km di ferrovia e le cui dimensioni sommate non arrivano nemmeno a quelle di un singolo porto del Nord Europa siano in aspra concorrenza benché gestiti da due Stati nazionali ambedue aderenti all’UE e all’Eurozona.
Tuttavia, Trieste possiede una carta di cui né Capodistria né altri porti europei dispongono: il porto franco con totale extraterritorialità doganale sancita dai trattati internazionali post-bellici e riconosciuta dall’UE, impiegabile anche per attività produttive e finanziarie e con il conseguente coinvolgimento dell’intero territorio. Infatti il mero transito di container produce effetti economici relativamente limitati. Il valore aggiunto e i posti di lavoro si creano soprattutto nel retroporto, con attività logistiche e con la trasformazione industriale delle merci. Nonostante la lentezza burocratica e l’annosa inefficienza del contesto statuale e amministrativo italiano, con l’affermarsi di un’Europa a più velocità, si accentuerà l’attrazione del baricentro mitteleuropeo su un porto franco internazionale che lavora solo in minima parte col mercato interno ed è situato sulla linea di faglia tra Nord e Sud Europa.
La penisola, nel cuore del Mar Mediterraneo, non solo è stata dunque il punto di arrivo delle antiche vie della seta, ma è ancora oggi il punto d’incontro ideale tra la cintura economica della via della seta e la via marittima della seta del XXI secolo. Per questo, l’Italia ha un indiscutibile valore centrale per la promozione dell’intero progetto BRI nella cui cornice, infatti, le aziende italiane e cinesi hanno già concluso collaborazioni importanti. Nell’acquisizione di Pirelli da parte del China Chemicals Group è intervenuto anche il Silk Road Fund, istituito poco prima, che ha raccolto il 25% dei fondi d’acquisto come primo progetto industriale in cui il fondo ha investito. Vale la pena sottolineare che questa acquisizione ha dato inizio all’interesse dell’industria italiana per la BRI, ma ha anche spinto il governo e i media italiani a prestare attenzione all’iniziativa cinese.
Infine, l’Italia ha rapporti economici molto stretti con i Paesi dell’Europa centrale e orientale, specialmente tramite le banche Unicredit e Intesa San Paolo e altri gruppi bancari di grandi dimensioni. Negli ultimi anni, le grandi banche italiane hanno cominciato a concentrarsi sulla possibilità di investire cooperando con la Cina in queste regioni. In futuro, Cina e Italia potranno cercare progetti appropriati, creare in Paesi terzi un nuovo modello di cooperazione per investimenti con rischi e benefici comuni lungo i corridoi delle nuove vie della seta. Dopo la Brexit l’Italia potrebbe inoltre assumere un ruolo ancor più rilevante nell’Unione Europea ed incrementare la propria influenza nell’ambito della cooperazione internazionale.
Le criticità della BRI e del ruolo italiano nel progetto di nuova globalizzazione cinese
Dal punto di vista della Cina, l’approfondimento della cooperazione con l’Italia nella cornice della BRI è comunque influenzato da alcuni rilevanti elementi d’incertezza.
In primo luogo, la linea del Governo italiano nei confronti degli investimenti cinesi non è sufficientemente chiara. Negli ultimi anni, l’Italia è diventata una delle principali destinazioni degli investimenti della Repubblica Popolare in Europa. Durante le rispettive visite di Stato, i maggiori esponenti politici ed istituzionali italiani (tra l’altro gli unici in ambito G7 a prendere parte al Forum di Pechino dello scorso maggio) hanno invitato gli imprenditori cinesi ad investire in Italia. Eppure sembra che recentemente l’approccio di Roma abbia subìto un sottile cambiamento, evidenziando elementi di ambiguità ed indecisione. Molte di queste incertezze possono essere certamente ricondotte alle crescenti mire “imperialistiche” franco-tedesche nella proiezione esterna del progetto europeo ed al ruolo di marginale “vassallaggio” cui l’Italia è in esso mestamente relegata.
In secondo luogo, infatti, lo scorso febbraio i ministeri dell’Economia di Germania, Francia e Italia hanno scritto congiuntamente una lettera alla Commissione europea per chiedere l’adozione di restrizioni per limitare le acquisizioni di imprese high-tech europee da parte di aziende straniere. Si ritiene che questa mossa sia rivolta contro gli investitori cinesi. Se in futuro venisse adottata una legge per limitare gli investimenti della Repubblica Popolare nell’UE, questa danneggerebbe la cooperazione sino-italiana nella cornice della BRI.
È inoltre necessario valutare accortamente le possibili controindicazioni connesse ad un tale approfondimento dei livelli di collaborazione con la Cina. Una volta spalancate le porte a Pechino, gli investimenti cinesi potrebbero diventare, in primis, più predatori. Per questo, l’Italia dovrà essere selettiva, accettando solo quelli che producono aumento del PIL, dell’occupazione e la possibile apertura del mercato cinese ai prodotti italiani. Questo è il caso delle operazioni greenfield e brownfield, che accrescono la capacità produttiva. Le fusioni e le acquisizioni invece non portano valore diretto all’Italia, ma solo all’azionista che cede la propria quota. La seconda controindicazione è che un maggiore dialogo con la Cina potrebbe inasprire il già complesso (e compromesso) rapporto tra Roma e il resto dell’Europa. Inoltre, l’aumento delle attività italiane in Africa potrebbe non essere gradito dalla Francia, che qui storicamente afferma la sua influenza.
L’Italia non rischia invece di cadere nella «trappola del debito» alimentata dagli investimenti cinesi. Su 2.300 miliardi di euro e più di debito pubblico italiano, il 32% è in mano straniera, prevalentemente tedesca e francese. La Cina, allo stato attuale, non investirà 700 miliardi nel debito nostrano, quindi non si dovrebbe creare quel legame di dipendenza finanziaria in cui molti scorgono le avvisaglie di una sudditanza politica e militare. Invece, il pericolo che alcuni Paesi più vulnerabili sul piano economico incappino in un problema del genere offre (paradossalmente) all’Italia l’opportunità di fare affari con loro collaborando in triangolazione con la Cina. Tale dinamica potrebbe certamente verificarsi in Africa, in Asia centrale e nel Sud-Est asiatico.
Con la firma del memorandum d’intesa concernente l’adesione del nostro paese alla Belt and Road Initiative, che avrebbe dovuto aver luogo durante la visita del vicepremier Di Maio a Shanghai ed è stata invece procrastinata al 2019, l’Italia compirebbe infine un passo che nell’Unione Europea hanno finora intrapreso soltanto Grecia ed Ungheria. Pare che proprio il timore di suscitare azioni negative in un momento in cui l’Italia si trova già in una posizione di vulnerabilità nell’ambito comunitario abbia in extremis convinto il Governo dell’opportunità di un rinvio. Non sarà tuttavia dall’Europa che, almeno sotto questo profilo, potrebbero giungerei problemi maggiori qualora il governo italiano decidesse di persistere in questo orientamento.
In effetti, per quanto molti indizi inducano a pensare che soprattutto la Germania guardi con interesse crescente alle potenzialità del mercato cinese, pur vantando la Repubblica Popolare un surplus commerciale anche nei confronti di Berlino, è invece prevedibile che grosse difficoltà giungano prima o poi soprattutto dagli Stati Uniti. In Italia, Paese in cui prevale una lettura economicistica dei fenomeni geopolitici, si tende a ritenere che la partita in atto tra Washington e Pechino verta esclusivamente sul riequilibrio della bilancia americana delle partite correnti e che le tensioni affiorate tra le due sponde del Pacifico possano essere risolte in modo transattivo, convincendo i cinesi a importare più prodotti americani ed esportare meno verso gli States.
Purtroppo, si tratta quasi certamente di un abbaglio perché, per le caratteristiche che hanno assunto, le restrizioni commerciali adottate dall’amministrazione statunitense, con l’imposizione di dazi e tariffe progressivamente aggravati, somigliano sempre più ad un embargo strategico mascherato, che ha come solo obiettivo la limitazione del potenziale di sviluppo economico e tecnologico di lungo termine della Repubblica Popolare e non solo la riduzione dell’ingente passivo commerciale americano, comunque tamponabile con l’emissione di cartamoneta, dato il «privilegio esorbitante» di cui gode il dollaro.
Se così fosse, e quindi l’offensiva commerciale varata dagli Stati Uniti avesse basi geopolitiche e non esclusivamente economiche, la politica di apertura adottata dal nostro Governo e la sua eventuale adesione alle vie della seta finirebbero fatalmente con il porre Roma in rotta di collisione con Washington. Gli effetti sarebbero potenzialmente devastanti, perché se si contasse davvero di sopravvivere alla fine del quantitative easing europeo con il sostegno della finanza statunitense (come il fondo BlackRock) non è certo offrendo sponde geopolitiche alla Cina che si raggiungerebbe lo scopo.
Si tratterebbe allora di confrontare le potenze di fuoco di cui americani e cinesi, rispettivamente, dispongono. Grandezze non confrontabili, almeno per il momento, e non solo sul piano militare. Mentre i capitali cinesi potrebbero sostenere efficacemente una campagna di investimenti nelle infrastrutture e nelle imprese del nostro Paese (naturalmente con un prezzo da pagare per noi) Pechino non sembra disporre di strumenti adeguati a fronteggiare un’eventuale speculazione al ribasso sul debito sovrano italiano che avesse lo scopo di modificare le scelte politiche del nostro Governo. I fondi sovrani cinesi possiedono infatti molta liquidità, ma non hanno una grande capacità di orientare i mercati, manipolandone le percezioni. Non solo i sostegni assicurati dalla finanza cinese verrebbero compensati dai disinvestimenti degli americani, ma le maggiori agenzie di rating, che sono anglosassoni, provvederebbero molto probabilmente a generare fughe dai nostri titoli pubblici abbassando il loro merito di credito. Il resto lo farebbero i grandi media mainstream, che all’occorrenza negli Stati Uniti agiscono sinergicamente rispetto al potere politico e a quello finanziario, di cui sono del resto l’espressione.
In conclusione di questa disamina alla Cina, alla Russia e agli USA occorre aggiungere la Francia, particolarmente aggressiva sia sul versante delle acquisizioni industriali, a partire da quelle concernenti le banche, le telecomunicazioni e i materiali d’armamento, che sul terreno della politica estera, come stiamo constatando in Libia e nel Mediterraneo più in generale. Non è certo sorprendente che in queste condizioni le nostre istituzioni cerchino di barcamenarsi come possono, tentando di estrarre da ogni situazione «tattica» il massimo possibile o, quanto meno, di ridurre i danni.
Le antiche Vie della Seta nel XIII secolo
A cura di:
Guido Carlomagno – IASSP
Emanuele Falasca – IASSP
Matteo Fulgenzi – IASSP
Bibliografia
SILK ROAD NOTIZIE, Alessia Amighini sulla Belt and Road Initiative, da http://www.civg.it, fonte: Il Sole 24 Ore, 12/6/2018
LIMES, rivista italiana di geopolitica, A chi serve l’Italia, 04/2017
LIMES, rivista italiana di geopolitica, Non tutte le Cine sono di XI, 11/2018
LIMES on-line, Il Forum delle nuove vie della seta celebra la globalizzazione con caratteristiche cinesi, da http://www.limesonline.com/rubrica/cina-forum-nuove-vie-della-seta-belt-and-road-initiative
Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Diplomazia Economica Italiana,3/18, ANNO XI, newsletter online a cura di MF, 17 Aprile 2018