TEMPO GUADAGNATO – La crisi rinviata del capitalismo democratico. Recensione e commento del libro di Wolfgang Streeck.
Il testo di Wolfgang Streeck è il risultato di un insieme di lezioni che l’autore ha realizzato nel 2012 e presenta al lettore un’analisi storico economica dell’evoluzione del capitalismo dal dopo-guerra ad oggi. In particolare l’Autore cerca di indagare quali siano state le cause che hanno portato il capitalismo democratico, che si instaurò dopo la fine del II conflitto mondiale, all’attuale affermazione del liberismo economico. Nella sua lettura si nota l’incapacità della teoria della “crisi” marxista di Francoforte di prevedere l’evoluzione che ha portato alla finanziarizzazione dell’economia, in quanto nella stessa teoria i mercati finanziari e le banche non erano neanche presenti.
La svolta neoliberista parte dalle fine degli anni ’60 con l’ondata di scioperi del 1968 fino alle crisi petrolifere del 1973 e del 1979. L’idea mainstream del capitalismo conciliato con la democrazia attraverso la protezione dei lavoratori e con un welfare state universalistico iniziò a vacillare in questi anni. Nonostante ciò, il capitalismo riuscì a mantenere presso i popoli occidentali la sua legittimazione e quello che nel ’68 veniva criticato come il consumismo di massa diventò il punto di forza con cui riuscì a mantenere le sue caratteristiche peculiari. Nelle teoria marxista della crisi non era possibile che fossero gli stessi lavoratori a legittimare il Capitale, cosa che invece avvenne con sorprendente efficacia. Inoltre il lavoro salariato venne utilizzato come strumento di emancipazione femminile, il che apportò nuovo consenso verso un’opera di transizione dal capitalismo democratico alla nuova restaurazione dell’ordine neoliberista.
All’idea di espansione dei diritti civili, quali i maggiori diritti alla donne (ma ne potremmo citare anche altri tutti meritevoli di tutela), si affiancarono politiche di liberalizzazione e privatizzazione dei mercati in modo che gli stessi si potessero espandere gradualmente in tutto il mondo. In altre parole si sono ribaltate tutte quelle limitazione che dai mercati passarono agli Stati . I vincoli del capitalismo finanziario vennero progressivamente aboliti (la più famosa legge di regolamentazione del settore, il Glass-Steagall act, fu abrogato nel 1999) mentre i vincoli di bilancio che oggi guidano le azioni di politica economica sopratutto nell’area dell’Euro e le politiche di deregolamentazione dei mercati sono diventate le nuove regole uniche. Questi sviluppi hanno posto il capitalismo neoliberista di fronte a sempre nuove sfide di legittimazione a causa della sua perenne instabilità ma con un obiettivo unico: comprare tempo per ridurre gli spazzi di democrazia e i diritti del lavoro per cercare di rimettere in moto il suo ciclo di accumulazione. Vi riuscì negli anni ’70 con l’uso dell’inflazione, poi con politiche di deregolamentazione e privatizzazione che ne rimangono il mantra per smantellare lo Stato fino ad arrivare a quello che è stato definito un “keynesismo privatizzato”, con l’ampio uso dei prestiti di banche private ai lavoratori e al settore pubblico. Ma anche questo spazio, ampiamente utilizzato negli USA e in UK, sembra ormai terminato a causa della triplice crisi bancaria, delle finanze statali e dell’economia reale che si autoalimenta mettendo il luce tutti i limiti nell’attuale sistema di accumulazione.
“Tempo guadagnato” è il titolo del libro che presuppone un evento al volgere del suo termine fino ad un nuovo ordine in grado di legittimare se stesso. La tesi centrale del libro è quella di una lunga trasformazione del capitalismo democratico nel quale il libero mercato era bilanciato dallo Stato fino a una continua riduzione degli spazi democratici avvenuti nel corso del tempo con un capitale sempre più aggressivo. Ad accompagnare questo cambiamento vi è stata una strategia politica di fondo che ha favorito tutte le riforme a livello nazionale per i singoli Paesi.
Le teorie marxiste della crisi hanno fallito, secondo l’Autore, nell’individuare la strategia che ha permesso al capitalismo di superare la crisi di legittimazione degli anni ’60, cioè non previdero l’uso massiccio della politica monetaria che consentì aumenti salariali al di sopra della produttività in modo da comprare quel tempo necessario per l’instaurazione di un nuovo processo di accumulazione. Nella seconda metà degli anni ’70 con l’avvento della stagflazione (cioè crescita inflazionistica con stagnazione economica) gli USA decisero di mettere fine al problema in maniera molto rapida portando il tasso d’interesse di riferimento della FED al 20%. La successiva stabilizzazione dell’economica monetaria iniziò con i Governi Reagan e Thatcher che, con le loro politiche di deregolamentazione dei mercati e di tagli al welfare pubblico, riuscirono a sopportare una disoccupazione di massa resistendo anche alla pressione dei sindacati.
Tutto questo provocò l’inizio di una profonda redistribuzione della ricchezza e del reddito nel tempo e i mercati, diventati sempre più potenti, iniziarono a ridistribuire sempre meno risorse attraverso il ricatto alla politica. Questa distanza fu colmata, in parte, con l’esplosione dell’indebitamento pubblico degli anni ’80, finanziato dalla grande finanza che anticipò le risorse che gli Stati saranno poi tenuti a ripagare nel tempo (con interessi maggiori soprattutto per quei Paesi che hanno attuato minori riforme dal lato dell’offerta). Questa nuova strategia mirava a guadagnare tempo nell’attesa di portare avanti le continue riforme dei mercati (del lavoro in particolare) che si realizzarono in primo luogo grazie all’amministrazione Reagan che, con politiche di espansive del bilancio pubblico (sopratutto per finanziare il comparto bellico) e politiche monetarie restrittive (congiunte alla liberalizzazione della finanza) riuscì a mantenere alta la domanda aggregata e a finanziarla con l’afflusso di capitali esteri dovuta al conseguente aumento del tasso d’interesse.
Con questi cambiamenti strutturali dei sistemi economici il “tempo guadagnato” dal capitalismo si espanse ancora ma negli anni novanta iniziarono, sotto l’amministrazione Clinton, le politiche di rientro del deficit pubblico attraverso i tagli alle spese sociali. Questa strategia rischiava di minare la crescita economica a causa dell’insufficienza della domanda aggregata, problema che si risolse attraverso l’adozione di un “keynesismo privatizzato” (terminologia in realtà molto forzata in quanto Keynes non parlò mai di stimolare la domanda con prestiti di natura privata). La garanzia dell’interesse generale, che nel capitalismo democratico era prerogativa dello Stato, diventò l’obiettivo ultimo del neoliberismo cioè una privatizzazione totale delle decisioni inerenti la crescita economica e la sicurezza sociale.
Il “castello di carte” crollò nel 2007-2008 con una bolla finanziaria nel settore immobiliare che generò la più grave crisi economica dal 29 ad oggi. In altre parole, i macroeconomisti sottovalutarono il ruolo della finanza e degli effetti perversi sull’economia reale non integrando i contributi dati da altre discipline quali, ad esempio, la finanza aziendale. In Italia anche il modello macroeconomico neokeynesiano utilizzato per stimare gli effetti dell’Austerity trascurò completamente l’effetto negativo dei fallimenti bancari che hanno danneggiato in maniera significativa la performance della nostra economia. In altre parole i macroeconomisti hanno avuto un’eccessiva fiducia nel funzionamento dei mercati e nella loro capacità di recupero e di efficienza. Il mercato non è in grado di fronte a recessioni significative di tornare in equilibrio da sé, specialmente se le economie sono strettamente legate per la loro crescita endogena dal credito privato.
Nonostante ciò, le politiche neoliberiste stanno continuando a dominare l’UE dove il processo di accumulazione del capitale può espandersi ancora in maniera significativa, dati i rilevanti programmi di privatizzazione e liberalizzazione che possono essere messi in atto. Di fatto l’UE è stata costruita sull’idea di federazione concepita nel 1939 da Hayek con la presenza di una banca centrale indipendente e con politiche fiscali volte alla riduzione progressiva del campo di azione dello Stato. Il fine ultimo, maturato soprattutto dagli anni ’70 in poi, è stato quello di un grande esperimento volto alla sterilizzazione della politica e alla sottomissione dello Stato sovrano alle esigenze dei mercati finanziari globali, diventati nel tempo sempre più efficienti nei trasferimenti internazionali. Lo strapotere della finanza presenta però un limite di legittimazione verso il consenso delle masse che si vedono obbligate nella restituzione sempre più difficile di enormi debiti pubblici accumulati.
Le politiche di liberalizzazione e privatizzazione hanno in effetti come fine ultimo quello di una maggiore garanzia nella restituzione dei crediti concessi, in quanto un maggiore quota di crescita generata nel Paese che le adotta finisce proprio nelle mani dei privati. Da un punto di vista strettamente morale potrebbe sembrare inopinabile la restituzione dei debiti accumulati se non fosse che sia la storia (anche quella più antica) che la teoria economica (intesa come scienza sociale) ci dimostrano che l’economia è fatta di equilibri e quando vi sono condizioni di eccesso di debito/credito accompagnati da profonde disuguaglianze di reddito e ricchezza il sistema economico inizia ad avere problemi di crescita e di efficienza nell’uso delle risorse (si veda, di fatto, l’alta disoccupazione accumulata nei Paesi del sud).
Il testo di Streeck argomenta quelli che possiamo definire gli errori di economisti troppo attaccati ideologicamente alle loro teorie, visto che i processi di liberalizzazione e privatizzazione sono strenuamente impediti anche dalle identità culturali dei Paesi membri, in particolare, dell’unione monetaria. Quello che si promette loro è che a seguito di queste riforme vi saranno maggiori benefici dal punto di vista economico per tutti; il problema fondamentale è che se le politiche dell’offerta non sono accompagnate da corrispondenti politiche della domanda i relativi benefici per le popolazione rimangono solo promesse. Da qui l’insorgere dei partiti populisti che, dando voce ai cittadini rimasti emarginati dal processo di globalizzazione economica e dall’innovazione permanente che rende instabili i rapporti di lavoro, hanno preso sempre maggior potere nell’UE costringendo i partiti tradizionali ad inseguirli nelle loro istanze mettendo sempre più i popoli europei gli uni contro gli altri. In altre parole, la democrazia segnala che il processo di accumulazione capitalistica sta perdendo progressivamente la sua legittimità in Europa, e in Occidente in generale, e tutto ciò non è dovuto ad un eccesso di libertà politica ma da istituzione internazionali ed europee inadeguate a rendere maggiormente omogeneo il processo globalizzazione e d’integrazione economica.
Le conclusioni a cui arriva il testo sono quelle di un’impossibilità di democratizzazione dell’UE per l’assetto istituzionale attualmente in vigore, in quanto creare una costituzione che dia voce alle innumerevoli differenze culturali all’interno dell’Europa è un’impresa titanica anche per la scarsa popolarità di Bruxelles. La proposta di fondo potrebbe essere quella di una Bretton Woods europea che porti l’Euro a svolgere la funzione di moneta si riferimento e ancoraggio in altre parole sempre un cambio fisso ma con aggiustamenti flessibili proprio per ridare spazio alle diversità nazionali. Nelle nostre costituzioni i principi di protezione delle minoranze sono ben presenti mentre i trattati europei sono sistematicamente contrari alle regole fondamentali delle nostre democrazie. L’applicazione di un regime di cambio come quello proposto da Keynes nel dopo guerra potrebbe essere un compromesso accettabile per non esasperare i conflitti tra i popoli europei.
Nella visione dei teorici del mercato unico, l’Unione Europea è il risultato di un processo di cambiamento di paradigma dal punto di vista economico che parte dagli anni ’70 in cui il modello keynesiano entrò in crisi in quanto non in grado di assicurare il giusto grado di efficienza e di innovazione al sistema capitalistico. Una crescita non inflazionistica è un elemento essenziale per cercare di mantenere un tenore di vita elevato ed evitare una crisi di legittimazione all’interno del sistema. Una volta che i capitali siano stati liberati da tutti i vincoli imposti dallo Stato, la crescita sarà in grado di premiare anche gli strati più bassi della popolazione. Da questo punto di vista, l’Euro è un ottimo metodo per eliminare le rigidità ancora presenti all’interno dell’unione monetaria e liberare quella “distruzione creatrice” in grado di rinnovare le imprese e selezionare quelle più competitive in modo che i vantaggi ricadano su tutti i cittadini.
In altre parole, con l’Euro di realizza quello che gli Stati Uniti d’America e la UK hanno realizzato i governi di Reagan e Thatcher, ma con una sostanziale differenza. Mentre i cambiamenti in questi due Paesi ebbero comunque una legittimità democratica, all’interno dell’Unione Europea questo processo viene imposto lentamente e con l’uso del ricatto della finanza, imbrigliando il processo democratico. Questa strategia nasce dal punto di vista intellettuale dalla presa di coscienza dell’instabilità del mercato nella sua capacità di autoregolarsi da solo. Creando delle istituzioni tecnocratiche in seno al processo di integrazione si è pensato che gestendo i fallimenti del mercato, questi non solo avrebbero favorito l’integrazione ma sarebbero potute servire ad attuare le riforme strutturali attraverso un coordinamento dall’alto da parte della Commissione Europea e della BCE. Solo in questo modo di poteva rendere l’unione monetaria prima, e l’UE, poi il continente “all’avanguardia” dal punto di vista dell’innovazione e della crescita economica di lungo periodo.
Nel tempo è sorto però un problema di legittimità politica, in quanto le riforme strutturali non sono state accompagnate dagli opportuni investimenti dal lato della domanda. L’esempio più lampante di ciò è stata la Grecia, con l’Austerity che ha permesso ampie riforme quali il taglio delle pensioni, privatizzazione e liberalizzazioni che, sempre secondo l’ottica neoliberista, permetteranno recuperi di efficienza e di crescita nel lungo periodo. Anche da un punto di vista radicale ci si è accorti che in Grecia si è andato oltre ogni limite in quanto il prodotto interno lordo dallo scoppio della crisi ha sperimentato una caduta di oltre il 40 % rendendo impossibile la restituzione dell’enorme debito pubblico arrivato a oltre il 180% del PIL. Nonostante ciò, in base alle tesi di chi appoggia l’Austerity, ci sono ampi casi di successo nella riduzione del rapporto debito pubblico/PIL con l’uso di politiche di tagli alla spesa collettiva come è avvenuto negli anni ’90 in Belgio. In ogni caso quello che conta, nonostante le contraddizioni dal punto di vista scientifico, è che l’unione monetaria non sia saltata perché nel lungo periodo dopo i sacrifici imposti, si potrà finalmente realizzare una vera unione politica che permetterà lo sviluppo di un’economia altamente competitiva con una crescita non inflazionistica.
La tesi di fondo del libro è quella di un continuo comprare tempo da parte del capitalismo, attraverso il sorgere continuo di crisi verso nuove prospettive di crescita e di consenso sociale. La critica del neoliberismo è puntuale e descritta nei minimi particolari attraverso la sua affermazione costante nel tempo. Il problema di fondo è che ogni volta i suoi cambiamenti sono stati accettati e hanno trovato legittimità sociale almeno nei Paesi anglosassoni dove sono partite le riforme neoliberiste degli anni ’70. Attualmente l’ideologia del libero mercato delle liberalizzazioni e privatizzazioni si trova in una crisi di legittimità anche a causa della rovinosa crisi del 2007 e 2008, non solo nei Paesi dove la stessa si è originata ma anche in Europa a causa dell’esperimento più avanzato di liberismo economico che mira, con la forza della moneta unica, a delegittimare quello Stato sociale che nel vecchio continente è ancora molto forte.
La sua crisi però potrebbe essere solo apparente e una sua riconversione ad una moderazione keynesiana di vecchio stampo potrebbe incontrare forti resistenze sopratutto da chi ha tratto maggiore beneficio dalla globalizzazione e dalla moneta unica. Tale processo di moderazione del regime capitalistico di accumulazione si è istaurato nella storia come conseguenza della più sanguinosa guerra nella storia dell’umanità. Solo in quel caso i paesi egemoni hanno visto con lungimiranza l’applicazione di un sistema più moderato proprio alla ricerca di consenso nelle masse. Nonostante tutto, l’applicazione keynesiana del Bancor come moneta di riferimento non venne messa in pratica dal Paese egemone di allora che preferì rendersi protagonista utilizzando la sua moneta come riferimento per tutte le altre. In altre parole la storia ci insegna che il cambiamento di regime è difficile che avvenga senza degli avvenimenti tracici o quanto meno non efficienti a livello collettivo. Ragion per cui, se si dovesse arrivare ad un Bancor “europeo”, lo stesso potrebbe arrivare solo dopo una rottura dell’eurozona che danneggi tutti i Paesi non solo quelli europei, in modo che valutandone strettamente i costi e benefici i popoli divisi da anni con l’Austerity possano arrivare ad un simile compromesso.
Fondamentale è la presa d’atto che l’economia non può essere trattata come un’arma contro i popoli, pur nella giustificazione di adottare riforme strutturali a volte necessarie. Il confronto con quanto successo negli Stati Uniti d’America e in UK è lampante: in quei Paesi si è avuto un processo democratico in grado di giustificare le riforme fatte anche se hanno poi causato un’instabilità permanente dei mercati finanziari. Per cercare di evitare ciò ed a causa delle rigidità costituzionali, il miglior modo che gli economisti hanno trovato per cercare di adottare i cambiamenti strutturali richiesti è stato l’uso del vincolo esterno, attraverso l’Euro. Pur nella consapevolezza che non avrebbe funzionato a lungo, si è sempre pensato che si sarebbero trovati gli strumenti per reagire ad eventuali shock macroeconomici; di certo non si sarebbero aspettati di affrontare la peggior crisi economica dal ’29 ad oggi.
Il tentativo di giustificare il sacrificio della Grecia a livello mediatico con un atteggiamento paternalistico e quasi in tono minaccioso nei confronti degli altri Paesi del sud, non ha potuto che colpire l’opinione pubblica anche nei Paesi del nord. I tentativi, poi, di vedere nei recenti segni di crescita del PIL della Grecia la dimostrazione che l’Austerità funziona e porta risultati non può che trovare una netta smentita da parte di tutti gli economisti, anche da quelli più radicali. Di fatto l’Austerità in Grecia, con la sua applicazione quasi sperimentale, ha segnato per sempre questo Paese in quanto, anche se dovesse veramente diventare più competitivo, non potrà più raggiungere i livelli degli altri Paesi. Mentre l’Austerità veniva e viene applicata in Grecia, infatti, il resto del mondo è andato avanti mentre le migliori menti sono emigrate all’estero.
In altre parole si è trattato di una pura modalità di “colonialismo” applicato con gli strumenti dell’economica monetaria e con l’uso dell’ingegneria sociale. Anche negli altri casi nei quali è stata applicata, l’Austerity il più delle volte non ha funzionato. Il Belgio ha sperimentato una diminuzione del rapporto debito/PIL dagli anni ’80 fino al 2007 -2008 con le solite politiche di liberalizzazione, privatizzazione e tagli alle pensioni. Il problema è che quelle politiche furono applicate negli ’90 e si tende a dimenticare che non vi erano le stesse condizioni contingenti di oggi; non vi era il rigore dei conti (e la conseguente flessione della domanda interna) negli altri Paesi e, soprattutto, si viveva in un mondo con fondamentali economici e di disuguaglianza diversi. Tra l’altro a seguito della crisi del 2007-2008 e degli anni successivi con lo scoppio della crisi del debito sovrano, il popolo belga si è ritrovato con un debito pubblico/PIL in aumento dal 87% al 105% di certo non per l’aumento delle pensioni. In altre parole, dopo il danno anche la beffa.
Dott. Emanuele Falasca